Dalla Car City alla Free-Car City

Parking lot

Dalla Car City alla Free-Car City

di Stefano Civitarese


Domenica 16 maggio all’Aurum di Pescara, un incontro sulla sicurezza stradale, promosso dalla famiglia dell’ex sindaco di Pescara Carlo Pace, ucciso il 27 marzo 2017 da un’automobile mentre attraversava la strada, era incentrato sulla mobilità intelligente per aumentare la sicurezza stradale. Un modo concreto, ha detto Bruno, il figlio di Carlo Pace, per ricordare la figura di un sindaco che negli anni ’90 portò avanti soluzioni innovative sulla mobilità cittadina, e che nel 2016 affermava che la mobilità sostenibile è uno dei temi fondamentali del futuro di Pescara, soprattutto attraverso il potenziamento della mobilità ciclistica.
Per Coalizione Civica il tema della mobilità sostenibile è tra quelli fondanti della propria identità politica e l’idea che la sicurezza stradale passi essenzialmente attraverso il totale ribaltamento del modo come viene concepito l’uso delle strade è parte essenziale del suo programma politico.
Grazie anche agli importanti spunti offerti dai relatori intervenuti all’incontro, in questo post vorrei contribuire alla riflessione in corso partendo da una interessante indagine condotta da tre ricercatori di università inglesi (Adriana Ortegon-Sanchez, Cosmin Popan, Nick Tyler, Car-free Initiatives from around the World: Concepts for Moving to Future Sustainable Mobility) che è parte di un più ampio progetto chiamato Liveable Cities.

L’indagine svolta riguarda le iniziative che in tutto il mondo puntano a liberare le città dal traffico automobilistico. Il punto di partenza è costituito dal modo in cui la stessa forma urbana è storicamente dipendente da come ci si muove e dalla tecnologia trasportistica dominante. La dimensione delle città è stata sempre all’incirca determinata dall’unità spazio-temporale di 1 ora per raggiungere i vari punti e l’espansione urbana è dipesa dal mezzo di trasporto utilizzato dalle persone per muoversi in questo spazio. Questo nel corso della storia ha dato luogo a tre tipi principali di città: pedonali; trasporto pubblico-centriche; auto-centriche. Il primo tipo ha caratterizzato per secoli, dal medioevo in avanti, la forma delle città. Nel XIX secolo si è avuto l’avvento dei sistemi pubblici di trasporto urbano (specialmente a rotaia). Solo negli anni Trenta del secolo scorso vi è stato l’avvento dell’automobile come mezzo di trasporto principale per gli spostamenti cittadini e di conseguenza il disegno delle città è mutato per rispondere al nuovo scenario. Naturalmente, si tratta di mutamenti, benché spesso traumatici, graduali e così molte città, specialmente europee, presentano nella forma urbana una sovrapposizione dei tre modelli.
Ciò che è interessante notare è che l’avvento della città auto-centrica non fu affatto questione pacifica. Fu invece vista come fonte di ingiustizia e pertanto prima di cambiare la forma e l’aspetto fisico delle città per renderle idonee alla circolazione e alla sosta delle automobili fu necessaria una rivoluzione mentale e culturale della popolazione. La stessa di cui vi è bisogno oggi per superare la città auto-centrica.

All’interno della rivoluzione auto-centrica sono a loro volta distinguibili tre fasi di politiche dei trasporti urbani.

La prima è stata definita ‘car-movement focused’, vale a dire focalizzare l’assetto delle città sugli spostamenti automobilistici. La previsione – e al tempo stesso il supporto – di un rapido aumento della diffusione della proprietà privata dell’auto tra le classi medie e poi anche popolari, vista anche come indice di sviluppo economico, portò a una consapevole politica di investimenti per aumentare spazi per le auto a scapito di quelli per i pedoni. L’espansione urbana che ne conseguì rese i sistemi di trasporto pubblico assai meno convenienti e attrattivi, producendo così il deterioramento del servizio e la sua drastica riduzione.
In Italia, un segno tangibile della centralità di queste politiche è ancora oggi visibile nella legislazione sui cosiddetti standard urbanistici per parcheggi, che sono stati fissati nel 1968 e mai più modificati. In pratica ogni volta che si preveda un qualunque nuovo insediamento tra gli spazi pubblici necessari per l’urbanizzazione dell’area deve esserci una quantità minima di spazi pubblici (quindi sottratta ad altri possibili destinazioni pubbliche) per parcheggiare le automobili. A questi si aggiungono ulteriori spazi privati al servizio degli abitanti, se si tratta di una casa, o dei consumatori, se si tratta, per esempio, di un negozio. È evidente, quindi, che è sottratta al decisore politico locale la scelta discrezionale, per esempio, di investire le risorse necessarie a realizzare quei parcheggi su un sistema di trasporto pubblico innovativo e di piste ciclabili che rendano superflua l’esistenza stessa di tali parcheggi. Questa idea della ‘essenzialità’ dei parcheggi nei centri urbani ha avuto numerose conseguenze su altri aspetti. Tra questi l’idea della tendenziale gratuità dei parcheggi pubblici in nome di un presunto diritto a circolare in auto e lasciarla ovunque. Si pensi al fatto che i giudici amministrativi abbiano creato il principio dell’equilibrio numerico tra zone di sosta a pagamento e non, con la conseguenza che per introdurre nuove aree a pagamento i comuni devono giustificare il motivo per cui si deroga a tale principio. Basterebbe ripensare alla storia sopra brevemente raccontata e al modo come la città auto-centrica abbia ‘usurpato’ gli altri modelli per avvedersi del fatto che è la sottrazione di spazi pubblici a tutti gli altri usi causata dai parcheggi a dovere essere giustifica rispetto alla tutela dei diritti fondamentali delle persone. Un modo (non ottimale) per gestire le esternalità negative è quello di addossarne il costo sui produttori/utilizzatori, come avviene nel noto principio ‘chi inquina paga’. Chi usa il suolo pubblico (sottratto permanentemente all’uso collettivo) per scopi privati perlomeno lo paghi. Così, semmai è l’esistenza di parcheggi pubblici gratuiti che dovrebbe essere giustificata e non il contrario.

La seconda fase rappresenta una reazione alle conseguenze negative della prima e il suo motto potrebbe essere “agevolare la mobilità della gente e non dei veicoli”. Negli anni del Dopoguerra e del boom economico corposi investimenti (che possono essere considerati sussidi indiretti del settore pubblico agli utilizzatori di auto private) in strade a scorrimento veloce e reti di strade urbane e periurbane portarono allo sviluppo di grandi quartieri esclusivamente residenziali. Questo fenomeno fu particolarmente accentuato negli Stati Uniti, ma caratterizzò chiaramente anche l’Europa. Del resto, il collegamento tra il modello fordista e la diffusione della cultura dell’automobile – con la mitizzazione dell’automobile come strumento di libertà, status, emancipazione – è sin troppo noto. Come ha ricordato Paolo Pinzuti nell’incontro da cui abbiamo preso le mosse, quello che avvenne in Italia e in Germania negli anni Cinquanta e Sessanta con la Volkswagen, la 600 e la 500 FIAT, è riconducibile al medesimo schema economico-culturale.
Senonché, a partire dagli anni Settanta, si cominciò a constatare l’insostenibilità di questo sistema di sussidi indiretti a causa della crescita esponenziale nel numero dei veicoli e anche a porre l’accento sulle numerose esternalità negative: la congestione dei centri urbani, l’inquinamento, il costo notevole della manutenzione delle infrastrutture, l’altissima incidentalità, il degrado delle zone mono-residenziali.
Questa situazione favorì l’emergere di politiche dirette a recuperare lo schema dei modelli anteriori, la città pedonale, ora declinata in termini di ‘spostamenti attivi’ (comprendenti quindi anche la bicicletta) e quella trasporto-pubblico centrica. Il che non poteva che generare nuovi conflitti a causa del modello imperante di organizzazione spaziale delle città e della domanda di trasporto crescente fondata sull’auto privata. Il fatto che non fosse sufficiente operare sull’offerta (rilancio trasporto pubblico di massa) portò a intervenire sulla domanda, vale a dire a introdurre misure di disincentivazione dell’uso dell’automobile, quali parcheggi a pagamento, zone a traffico limitato, limiti di velocità più bassi, etc.

Gli scarsi risultati in genere ottenuti con tali politiche (insieme ad altri fattori di ordine più generale, per esempio una maggiore coscienza dell’insostenibilità del modello di sviluppo attuale) hanno portato alla terza fase delle politiche trasportistiche, quella che i nostri autori chiamano “assicurare l’accessibilità della gente alle attività e migliorare la qualità della vita”, ove si nota, quindi, un cambio di paradigma. Alla base di questo approccio vi è il riconoscimento della molteplicità di funzioni che le strade svolgono tanto come componenti dei sistemi di trasporto pubblico in senso lato quanto come ‘facilitatori’ della vita urbana. L’obiettivo è rimuovere le impattanti infrastrutture dedicate al traffico automobilistico e ai parcheggi per restituirle ai suddetti usi plurimi. Le stesse politiche dei trasporti pubblici puntano all’integrazione con più ampi obiettivi ambientali, sociali ed economici.

Molto importante è la conclusione cui pervengono Ortegon-Sanchez, Popan e Tyler alla luce di questa analisi storica sulle politiche dei trasporti nelle città, vale a dire che la “car-city” è stata disegnata pensando a persone che trascorrono il proprio tempo negli spazi pubblici solo o prevalentemente dentro le proprie auto. La stessa zonizzazione mono-funzionale (zone residenziali, industriali, direzionali), caratteristica anche dell’approccio italiano sino a pochi anni orsono, disconosce la scansione temporale delle attività umane e favorisce il sorgere di aree inutilizzate e deserte in certi momenti della giornata e di una vita sociale frammentata. In tale contesto il disegno urbano funzionale per una persona che si muova a 40, 50 o 60 chilometri all’ora è completamente alienante per una che si muova a 3 o 10 chilometri orari.
Quasi mai ci riflettiamo, ma al di là degli enormi problemi che il traffico crea in termini di inquinamento e morti e feriti per incidenti, una ‘car-city’, la ‘forma’ della città auto-centrica, favorisce l’estinzione della “vita urbana” intesa come insieme di relazioni sociali qualitativamente apprezzabili al di fuori della cerchia ristretta delle relazioni familiari e di lavoro e del – non a caso debordante – universo parallelo dei social networks.

In questo quadro si può apprezzare l’importanza delle iniziative che possono essere ricondotte sotto l’etichetta “Car-free”. Per una formazione politica che punti in questa direzione, in un contesto in cui l’orientamento politico e culturale appare essere ancora largamente a favore della “Car-city”, le lezioni che si possono trarre da queste esperienze appaiono di grande utilità.
Per l’indagine sino al 2016 sono state censite 213 iniziative in 95 città che sono riuscite a impostare e in molti casi ad attuare politiche di riduzione della ‘dipendenza da automobile’. La ricerca identifica quattro principali strategie cui ricondurre e in cui raggruppare tali iniziative:

a) rendere più costoso o meno conveniente l’uso dell’automobile. Questa categoria include misure come il pagamento di tariffe per entrare nel centro, le zone a traffico limitato, le targhe alterne e la regolazione dei parcheggi. Si tratta per vari motivi di misure di limitata efficacia se non spinte a un livello al momento difficilmente ipotizzabile su larga scala. Un caso esemplare di quest’ultimo tipo è quello di Vauban a Friburgo, ove la circolazione della auto è permessa solo a passo d’uomo e non esistono parcheggi. I residenti devono dichiarare ogni anno se posseggono o meno un’auto e I proprietari di auto sono obbligati ad acquistare un posto-auto in un parcheggio multipiano alla periferia della città. Altro caso molto conosciuto è quello di Pontevedra, città della Galizia di 80.000 abitanti che ha progressivamente esteso il divieto di accesso delle auto sino a estenderlo a quasi tutta la città;

b) rendere altre modalità di trasporto più attrattive e convenienti. In questo gruppo rientrano molte azioni, tra cui tutte quelle relative al potenziamento dei servizi e delle infrastrutture per la bicicletta attraverso la riduzione degli spazi destinati alle automobili e al rilancio del trasporto pubblico di massa, spesso mediante il recupero e la riqualificazione di adeguati spazi pedonali e il ricorso a servizi innovativi quali le varie forme di bike-sharing. È quasi divenuto un luogo comune a questo riguardo menzionare i casi della Danimarca e dell’Olanda. Tra queste azioni vi sono anche quelle che tendono a considerare la mobilità come un “servizio integrato da gestire” in modo intelligente ricorrendo alla tecnologia. Helsinki rappresenta uno dei casi di riferimento, avendo definito i “Mobility-on-demand services” come il modo di favorire una vita senza automobile. La città ha introdotto una “app” che consente ai cittadini di avere a disposizione all’istante una bici, un’auto, un taxi o di trovare il bus o treno più vicini. La frontiera più avanzata è quella dei servizi bus personalizzati, già operanti a Masdar negli Emirati Arabi. Più in generale, va ricordata l’importanza delle politiche di mobility management, ossia quelle che, anche grazie all’uso della tecnologia, consentono alle autorità pubbliche di gestire gli spostamenti abituali in modo da favorire modalità alternative all’auto privata;

c) attivare nuove funzionali sociali delle strade. Anche questa categoria comprende iniziative variegate. Molte vanno avanti da anni e prevedono l’uso periodico delle strade per usi sociali, per esempio di domenica e nei giorni festivi (Bogotà, Mumbai, Jakarta, molte città canadesi e statunitensi). Più di recente Amburgo ha avviato la pianificazione di una rete di spazi verdi (giardini, parchi giochi, centri sportivi, cimiteri, etc.) per connettere i suoi parchi e realizzare una transizione verso l’obiettivo del 40% della città senza auto entro il 2034. L’idea delle “città 30”, di cui ha parlato Matteo Dondé nell’incontro di cui sopra, rientra in questa categoria. In tal caso la moderazione della velocità diviene occasione per una diversa progettazione degli spazi urbani e delle strade in cui pedoni e ciclisti siano in cima alle priorità;

d) riqualificazione urbana dei quartieri residenziali in direzione della sostenibilità ambientale complessiva, tra cui vi è l’obiettivo di assicurare spostamenti car-free. Tra i casi più significativi vi è quello sopra citato di Vauban, ma si possono menzionare anche gli esempi di alcuni ‘quartieri’ di Londra come Hackney e Waltham Forest. In quest’ultimo caso per scoraggiare il possesso dell’auto privata si prevede l’accesso a “car-club” di prossimità. Lo stesso avviene a Beddington con il progetto BedZed che punta a realizzare una comunità “carbon-neutral” con centri di riciclaggio, risparmio idrico e trasporti a zero emissioni. I car clubs sono servizi di noleggio auto a breve termine che consentono alle persone di utilizzare il mezzo anche soltanto per pochi minuti pagando la relativa tariffa.

Il punto di fondo è che solo l’integrazione tra queste diverse strategie è in grado di realizzare un effettivo superamento della ‘dipendenza da automobile’ e concorrere al raggiungimento di altri obiettivi, quali la riduzione dell’inquinamento atmosferico e la maggiore attrattività turistica e commerciale dei luoghi. Nelle politiche di riqualificazione urbana all’insegna della sostenibilità, più difficili da porre in essere su larga scala e infatti riscontrate in minor numero nell’indagine, l’integrazione tra le strategie e gli obiettivi è in re ipsa. A quest’ultimo riguardo, però, in Italia resta da superare il suddetto problema della anacronistica obbligatoria previsione di parcheggi in rapporto alla superficie edificata.

A questo occorre aggiungere il ruolo importantissimo che svolgono l’informazione e la socializzazione delle iniziative in questione. Nelle esperienze più avanzate sono le stesse autorità pubbliche che organizzano eventi, corsi, lezioni, etc. nelle scuole e nei luoghi di lavoro per spiegare i benefici che la mobilità sostenibile comporta. Progetti di sensibilizzazione e campagne di informazione sono normalmente finanziati anche in Italia. Il Comune di Pescara ne ha in corso uno, per esempio, il progetto PESOS, che però si è sinora limitato a investire risorse in operazioni di marketing (video e manifesti) cui non ha corrisposto alcuna iniziativa nel ‘mondo reale’.

In questo quadro, ancora più importante è il ruolo delle associazioni, movimenti e formazioni politiche che pongono al centro della propria azione lo sviluppo sostenibile, oggi sintetizzabile nella proposta di un “green new deal”, di cui le “free-car cities” sono un elemento a mio avviso centrale per la costruzione di una società post-capitalistica. I momenti di mobilitazione, approfondimento, proposta possono essere molteplici e diversificati, ma è necessario che essi siano articolati e coordinati attorno a una proposta politica complessiva che possa divenire credibile e attrattiva per un numero crescente di persone.
Ed è questo il ruolo di Coalizione Civica sia a livello locale sia nella partecipazione alla costruzione di una rete nazionale ed europea che renda possibile un futuro di ‘liveable cities’.